Tra le attività che nel corso del tempo hanno rappresentato una voce importante per il sostentamento del popolo sui Monti Amerini, troviamo sicuramente la caccia che nei nostri boschi è stata praticata ininterrottamente fino ad oggi.
Non abbiamo informazioni su come si svolgesse in passato l’esercizio venatorio, ma certamente dopo il secondo dopoguerra il sistema privilegiato è stato quello denominato “appostamento fisso” (dial. alberetto) costituito essenzialmente da una zona circolare all’interno del bosco del diametro di 30-40 mt circa all’interno della quale gli alberi vengono tagliati all’altezza di circa un metro.
Al centro dell’area viene costruito un capanno all’interno del quale il cacciatore si nasconde aspettando che i migratori si appollaino sugli spogli arbusti (seccarotti) innalzati allo scopo a tiro di fucile attirati dal canto degli zimbelli racchiusi nelle gabbie poste alla base di essi.

Appostamento fisso di caccia sui monti amerini
Di diverso tipo è invece l’appostamento fisso al colombaccio nel quale il capanno viene costruito alla sommità di un albero e i richiami sono legati a dei bastoni che il cacciatore muove dal suo nascondiglio tramite fili, obbligandoli a spiegare le ali e richiamare così l’attenzione dei simili.
E’ praticata inoltre la caccia “vacante” nella quale il cacciatore si sposta nell’intento di stanare la preda spesso aiutato da un cane. Dopo la metà degli anni ’70 in seguito alla comparsa non si sa quanto spontanea del cinghiale, molti si sono convertiti a questa nuova attività praticata a squadre anche piuttosto numerose.
In passato esistevano anche altri modi meno “nobili” di cacciare ma il fine di riempire lo spiedo giustificava ogni mezzo.
Dal ricorso alle panie (dial. paine) costituite da un bastone spalmato con una sostanza appiccicosa ottenuta dalle bacche del vischio e collocata nei pressi di piccole pozze che fungevano da abbeveratoi oppure vicino a piccoli cumuli di granaglie lasciati allo scopo.
Oppure alle trappole a caduta (dial. pietrangole) nelle quali una pietra piatta o più spesso una pianella, veniva mantenuta in equilibrio con un particolare sistema di legnetti incrociati sopra i quali il malcapitato si posava attirato da un impasto costituito da ghiande tritate spesso masticate dal cacciatore e posizionato sotto di essi. I legnetti cedevano sotto il peso dell’uccello provocando la caduta della pietra che lo schiacciava. A volte il cacciatore preferiva catturare la preda viva specialmente se non tutti i giorni passava a controllare e ricaricare le pietrangole, ed allora scavava una buchetta al centro della zona di caduta della pietra, Se i calcoli erano giusti l’uccellino restava intrappolato ma illeso, almeno fino all’arrivo del carnefice.
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E’ chiaro che i cacciatori dei tempi passati avevano come obiettivo principale quello di assicurare la sopravvivenza del proprio nucleo. Per quanto ne sappiamo nel nostro territorio esisteva un solo caso di “cacciatore conto terzi” ed era il leggendario Memmo che viveva la stagione di caccia nella sua casetta in località Pianali il quale cacciava per conto di una famiglia benestante del paese. In ogni caso è probabile che, come tutti i popoli del pianeta che nel corso dei secoli sono sopravvissuti grazie alla caccia, avessero una qualche forma di “rispetto” e ringraziamento per quanto il cielo forniva loro e perciò si guardassero bene dall’eccedere nel prelievo dei capi.

Memmo, il cacciatore dei Pianali prepara il pasto dei tordi
Personalmente ritengo che nel XXI° secolo la caccia come viene intesa da noi abbia esaurito il motivo di esistere se non per arginare quanto incautamente o volutamente provocato dai cacciatori stessi introducendo specie aliene che si stanno moltiplicando nel territorio. La realtà è che stiamo assistendo ad un impoverimento della biodiversità nonché alla diminuzione della popolazione delle varie specie. Di tutto ciò, se la caccia non può essere considerata la principale causa, non può neanche dichiararsi estranea. Nel corso dei vari trekking nei quali ci siamo avventurati nel corso della nostra esperienza di associazione abbiamo sempre avuto occasione di incontrare testimonianze di caccia. A volte non proprio apprezzabili come la discutibile abitudine di abbandonare ovunque cartucce che i nostri ospiti hanno diligentemente recuperato.
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Le cartucce e la plastica raccolte durante l’escursione di stamattina 😉#montiamerini #trekking #trekkingmontiamerini #recicling #naturelovers Un post condiviso da Trekking Monti Amerini (@trekkingmontiamerini) in data:
A volte suscitando la meraviglia in chi non aveva mai visto un alberetto che in alcuni casi somiglia a un vero e proprio giardino, oppure ammirando le ardite opere realizzate per raggiungere il più alto degli alberi da dove individuare il colombaccio.
E’ doveroso ricordare che la stragrande maggioranza dei nostri percorsi si snoda su sentieri che se sono ancora agibili si deve alla frequentazione dei cacciatori che li percorrono in lungo e in largo. Spesso alcuni tratti cadono in disuso perché si è affermata la consuetudine di utilizzare le piste che i tagliatori del bosco utilizzano per lo “smacchio” e che con poche accorte modifiche diventano percorribili con i fuoristrada evitando di caricarsi sulla schiena le gabbie dei richiami, il fucile e quanto necessario ed avviarsi al buio su irti sentieri fino all’appostamento di caccia.
In questi casi noi di Trekking Monti Amerini ci facciamo carico di ripristinare le tratte più interessanti affinchè i nostri boschi continuino ad essere vissuti e goduti per le meraviglie che nascondono ma sempre con il sottofondo e la presenza degli amici pennuti.