Nelle zone argillose e cretose soprastanti la valle del Tevere, nei calanchi del comune di Alviano, c’è un tipo di costruzione rurale, le case di creta, che sfruttano le caratteristiche e le peculiarità del territorio.
I calanchi in questa particolare zona, sono costituiti da colline argillose che prendono forme particolari a causa del dilavamento e dall’erosione prodotta dalle piogge e dai venti. I calanchi più famosi nei dintorni sono quelli di Civita di Bagnoregio, al di là del Tevere, ma anche nel nostro territorio abbiamo questo caratteristico terreno che crea un suggestivo paesaggio.

Calanchi nei pressi di Guardea, foto di Elena Venturi
I contadini di Alviano che avevano comunque una modesta abitazione in paese, costruivano dei ricoveri in terra cruda per trovare riparo nei campi distanti dal paese, verso il Tevere, durante le notti d’estate, per i giorni di mietitura in cui si stava a guardia del grano, oppure come ricovero per gli attrezzi agricoli e per gli animali.
Le case di creta di Alviano, risalenti all’800, sono il simbolo della civiltà contadina più povera, sono una realtà da tutelare e promuovere poichè fenomeno unico di questa zona. Rappresentano la civiltà contadina e l’unione tra la storia rurale e quella del territorio.

Alviano, foto di Elena Venturi
Le case di creta erano costruite lontano dal paese, utilizzando i materiali poveri che i contadini trovavano sul posto. Come ci ricorda un poeta locale, Italo Valeri, “ia da piova”, doveva piovere per poter riempire di acqua piovana la troscia e costruire la casa nova in quattro giorni. Infatti si usavano l’acqua piovana e l’argilla, la paglia e il legno per l’architrave delle porte, delle finestre e per le travi del tetto. Avevano una, massimo due stanze, con una piccola finestrella ed erano arredate in modo umile.
All’interno potevano esserci un tavolo e l’arca per contenere il pane (quando c’era…) e poche suppellettili per cucinare (brocca, caldaio, padella in ferro e qualche pignatto).
Alla nascita di un figlio potevano essere ampliate con minuscole costruzioni aggiuntive per adeguarsi alle esigenze della famiglia che cresceva.
I contadini non abitavano nelle casette di creta durante tutto l’anno, in inverno, molti preferivano tornare nelle proprie case all’interno del borgo.

Case di creta, foto di Ciro Schiaroli
Oggi, alcune di queste costruzioni vengono utilizzate come stalle per gli animali oppure per riporre gli strumenti per il lavoro dei campi, mentre altre sono state recentemente restaurate ed offrono un luogo tranquillo ed estremamente panoramico dove fermarsi per una visita. Le casette di creta sono state vincolate dalla soprintendenza per essere salvaguardate, per continuare così a testimoniare la civiltà contadina di un tempo.
Riportiamo una poesia intensa, “Il paradiso dei poveri” che arricchisce di un bellissimo racconto questa piccola descrizione della vita contadina.
Il paradiso dei poveri
Se il paradiso avesse un suono esso sarebbe
il rumore del frusciare ruvido delle foglie di granturco.
Scendeva la notte e con essa quel rumore entrava nella nostra casa di creta,
ma nessuno dei mie fratelli, nel letto con me, riuscivano a sentirlo.
Nemmeno papà e mamma, separati da noi da una tenda di tela, lo udivano.
Fu mio nonno a dirmi che quel suono ruvido era del paradiso che calava.
Dovetti promettergli, incrociando le dita sulle labbra che
non avrei svelato a nessuno che potevo sentirlo, nemmeno ai miei.
Il nonno mi prese sulle sue gambe, sotto un albero, si tolse il berretto e
mi svelò che il paradiso calava di notte nella casa dei poveri faticatori,
essi non sapevano minimamente di dormire avvolti da morbide nuvole,
soavi, senza stanchezza alcuna non immaginavano di essere prossimi a Dio.
Quel giorno, sotto l’albero col nonno, incrociai le dita e strinsi il premio,
un fico secco, la mamma li conservava per metterli nella calzetta di Natale.
Quando, ormai grande, lasciai la casa di creta per un’altra casa di creta
la vita si fece riconoscere per altri suoni, più lievi ma assai dolorosi.
Conobbi il pianto di figli che di notte dormivano su assi di legno
lo sbuffare dei tori che andavamo a prendere a piedi in maremma
il suono sordo della zappa che entrava nella terra di mattina e usciva di sera
il fragore delle bombe a grappolo tedesche sul ponte di ferro.
Sebbene fossero tanti e costanti i suoni della fatica e della povertà,
non smisi mai di sentire il rumore del paradiso.
Quando, io ed Ester, andavamo a letto, pensando che i miei figli dormissero,
ci muovevamo forte e delicati, sopra la fatica del giorno e della terra,
danzavamo su un materasso pieno zeppo di rumorose foglie di granturco.
Quello era il paradiso per noi che non avevamo smesso di essere poveri.
Fabio Bellumore, Bisbigli di Vita
[ https://bisbiglidivita.wordpress.com/2012/01/21/il-paradiso-dei-poveri-poesia-e-video/ ]