Il taglio della legna sui Monti Amerini (2/2)
Per il taglio degli alberi più grandi si preferiva usare ’l zegóne, una sega dalla lama lunga e larga, munita di manici alle estremità, che veniva manovrata da due persone (BA: se segava uno diqquà uno dillà) Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta hanno fatto la loro comparsa anche le prime motoséghe, che hanno enormemente semplificato il lavoro dei tagliaboschi (tajjatóri), riducendo in maniera considerevole la fatica ed i tempi necessari all’abbattimento ed alla successiva sistemazione degli alberi.
Le piante dovevano essere tagliate appena sopra il livello del suolo (raso tèrra) in modo che potessero rigenerarsi emettendo dalla ceppaia (céppo, ciòcca, céppa, ceppajja) i polloni (cacchj, ggètti), che pian piano avrebbero formato una specie di cespuglio da cui si sarebbero sviluppati i nuovi arbusti.
Era molto importante che il taglio delle piante non venisse effettuato troppo in alto, perché in tal caso il legno rimasto si sarebbe infradiciato, compromettendo la ricrescita dei nuovi germogli (BA: la pianta si la tajjavi alta rimanéa quél pèzzo de fràcio e ddópo se ruinava). Però non si dovevano neanche effettuare dei tagli troppo in basso, nel tentativo di recuperare la maggior quantità di legno possibile (PE: un imprenditóre dicìa: – guardate che le cèrque pésano in fónno, nò su ccima – allóra ’nnavi ggiù).
Questa pratica si è diffusa con l’avvento delle motoseghe, che hanno permesso di eseguire dei tagli proprio a ridosso dell’apparato radicale (PE: co le motoséghe se va ssótto ’l collétto e le piante mòjjono…nun càcciano più pperché…jj’arimane quér bórdo fino fino ddó che ss’allarga, nò, nàšcono i cacchj e sse rómbono, se spàccano…’nvéce quanno le tajjaàmo coll’accétta, le tajjai sópra e nnascéono sul piède, sul bòno).
Tagliare alberi tutto il giorno era un lavoro davvero duro, come ricorda un informatore di Giove con una simpatica battuta: la più ffatica è a ttirà ffòri la sémmola dal légno… quélla è la fatica più ggròssa!
I vecchi boscaioli hanno visto nella diffusione delle motoseghe un pericolo per la conservazione dei boschi (PE: la motoséga sta a ddistrugge li bbóšchi), aggravato dalla mancanza di rispetto per un ambiente delicato, che richiederebbe invece la massima attenzione (PE: nói su la tajjatura ’n ce ’nnavamo manco co le šcar-pe…adèsso ’nvéce ce vanno sópra co i ccìnguli de ttrattóre!).
Un’altra importante consuetudine era quella di effettuare dei tagli obliqui, in modo che l’acqua piovana scorresse via rapidamente. Con le tagliature orizzontali, invece, l’acqua poteva ristagnare ed infiltrarsi nella ceppaia (PE: la tajjatura piana bbée ll’acqua), determinandone il deterioramento ed impedendo così la ricrescita dei nuovi polloni, con grave danno per il ripopolamento dei boschi.
L’abbattimento degli alberi era una fase delicata e pericolosa in cui il tajjatóre metteva in mostra tutta la sua bravura. La pianta, infatti, doveva essere fatta cadere nel punto più aperto e comodo (MO: se facéono cascà ssèmpre ne la parte più còmmoda) per essere in seguito recuperata con facilità. A tal fine si iniziava a tagliare l’albero dalla parte dove si voleva che cadesse, staccando una piccola sezione a cuneo dal tronco, in modo che la pianta si piegasse nella direzione desiderata (LU: jje se facìa ’na ’ntacca coll’accétta che allóra annava pe qquél vèrzo). Questo lavoro era abbastanza agevole quando gli alberi erano dritti, ma se erano inclinati tutto diventava più complicato. In tal caso la cosa più semplice era lasciar cadere la pianta nella direzione verso cui era piegata, ma non sempre era possibile perché a volte gli alberi si trovavano in prossimità di zone impervie, che avrebbero reso disagevole o addirittura impossibile recuperarle. In situazioni del genere, quindi, gli alberi venivano legati con dei canapi e tirati nella direzione voluta.
Quando si abbattevano esemplari molto vecchi venivano generalmente recuperati anche i ceppi e le radici, perché dopo un certo numero di anni, variabile da specie a specie, l’albero maturo, se tagliato, non è più in grado di rigenerarsi.
Togliere i ceppi e le radici (cioccà, dicioccà) era un lavoro che richiedeva tempo e fatica. Di solito, se i proprietari del bosco erano d’accordo, si lasciava alla gente del posto la possibilità di recuperare tale materiale dopo la chiusura delle operazioni di taglio (BA: la ggènte ch’éa bbisògno annava llà ppe la màcchja a ffà ’ste légna). Per estrarre tutte le parti rimaste conficcate nel suolo si utilizzavano generalmente il piccóne ed una sorta di grosso maleppeggio (’l zappaccétto).
Testo tratto da:
“Le voci della memoria. Viaggio da Amelia a Baschi tra parole e cose di ieri”
Sabrina Zappetta