Antichi mestieri sui Monti Amerini: la cottura del carbone (4/4)
Lo smantellamento della carbonaia
Pian piano la trasformazione della legna in carbone andava avanti e la carbonaia diminuiva progressivamente di volume, iniziando a contrarsi in modo sempre più evidente.
Durante queste fasi era molto importante che la terra di copertura cedesse, accompagnando la contrazione, onde evitare il formarsi di cavità interne sotto la superficie.
Per agevolare tale processo si pressava periodicamente la terra con il dorso della pala, comprimendola sul materiale sottostante.
Il processo di carbonizzazione aveva una durata variabile: per le carbonaie di piccole dimensioni erano sufficienti pochi giorni, mentre per quelle più grandi serviva talvolta un’intera settimana o ancora di più. Quando anche dall’ultimo cerchio di fori iniziava ad uscire il fumo di un bel colore turchino la conclusione di questa fase di lavoro era ormai imminente. A poco a poco il fumo diminuiva di intensità fino a cessare del tutto: era il segnale tanto atteso che indicava la fine del processo di carbonizzazione.

Lo smantellamento della carbonaia
A questo punto la carbonaia aveva assunto una forma irregolare e spigolosa ed appariva notevolmente rimpiccolita. Il materiale di partenza, infatti, si riduceva alla metà del volume ed a circa un quinto del suo peso originario. Terminata la fase di cottura si iniziava immediatamente a smantellare la carbonaia tappando i fori con la terra e rimuovendo il carzòlo (se šcalzolava). Se esso era realizzato con i sassi questi ultimi venivano messi da parte ed accatastati in un punto della piazza per essere di nuovo adoperati nella preparazione delle carbonaie successive. Se il carzòlo era invece fatto con le zolle era piuttosto difficile che queste rimanessero solide e compatte fino alla fine e comunque durante lo smantellamento era pressoché inevitabile che si deteriorassero, perciò non potevano essere riutilizzate. Dopo aver eliminato il carzòlo si provvedeva a pulire la superficie della carbonaia dalle impurità più grossolane, utilizzando la pala ed un grosso rastrello di legno. I sassi erano talmente infocati che nel rimuoverli bisognava fare attenzione a non farli rotolare nel bosco, dove avrebbero potuto causare degli incendi e a non toccarli con le mani per non provocarsi ustioni. Quindi si lasciava riposare la carbonaia fino al giorno successivo in modo che il carbone e la terra di copertura cominciassero a raffreddarsi. A questo punto aveva inizio la delicata operazione attraverso la quale si puliva
accuratamente la terra di copertura (se sommonnava la carbonara).

Setacciando il carbone
Si prendeva allora una rete che fungeva da setaccio e la si collocava in prossimità della rete (se passava) in modo che tutte le impurità ed i granelli troppo grossi venissero separati dal materiale più minuto (BA: la tèrra la passi co ’na spècie de réte fina che nun ce passa ’l tròppo gròsso). Iniziando in un punto si faceva il giro completo della carbonaia, avendo cura di ricollocare immediatamente la terra passata sul carbone ancora infocato (AM: toccava ricoprì la carbonara co la tèrra passata, che ’n gni passava più ària). In questo modo, infatti, essa avrebbe aderito perfettamente al carbone proteggendolo da ogni contatto con l’aria ed impedendogli di bruciare.
La carbonaia così ripulita assumeva un aspetto ordinato e regolare (GI: èra tutta bbèlla lìcia) e con il suo calore trattenuto ed imprigionato aveva qualcosa di magico e di puro. Dopo averla lasciata raffreddare ancora per un po’ si poteva iniziare finalmente a scarbonare (šfornà)*. Questa operazione doveva essere effettuata al mattino molto presto, quando era ancora buio (LU: se fa la mattina a bbonóra, più dde nòtte che dde ggiórno). Con l’oscurità, infatti, si vedeva bene ogni favilla (luta), ogni minima traccia di fuoco e la si poteva spegnere subito (BA: se facéa prima de ggiórno pe vvedé mmèjjo le lutarèlle del fòco). Il carbone veniva estratto poco alla volta utilizzando la pala ed era poi separato dalla terra con un rastrello di legno (AM: se tira fòri ’m boghétto co la pala, ppò pe ccapallo da la tèrra ce sta rrestéllo…quanno lo tiri co rreštéllo se chjama lo strecà). Man mano che i vari pezzi venivano tirati fuori si aveva cura di muoverli a lungo fra la terra, in modo che si raffreddassero ulteriormente e nello stesso tempo venissero spenti anche i minimi residui di fuoco. A volte, tuttavia, nonostante queste precauzioni, qualche pezzo di carbone si incendiava e bisognava allora intervenire con prontezza. Per spegnerlo (morzallo, stégnalo) si poteva utilizzare un po’ d’acqua, se ve ne era a disposizione, ma il rimedio più diffuso era quello di ricoprire il carbone.

Insaccamento del carbone
L’insaccamento ed il trasporto del carbone
Quando il carbone era freddo si procedeva con l’insaccamento. Tale operazione era in genere affidata ad uno dei carbonai e ad un’altra persona, incaricata dal datore di lavoro, che svolgeva esclusivamente queste mansioni (ll’inzacchino). Per insaccare il carbone ci si serviva del vajjo, una specie di cesta intessuta con strisce di corteccia di castagno (AM: il vajjo è ffatto de šcòrze de caštagno) e munita di due impugnature per poterla afferrare agevolmente. Questo attrezzo aveva una forma rettangolare e leggermente arrotondata, con un’estremità aperta, attraverso la quale si introduceva il carbone. Il vajjo, infatti, veniva appoggiato a terra, dove il somajjòlo lo riempiva, * Nell’attesa, il carbone veniva disposto in uno o più mucchi piuttosto grossi, in modo che, in caso di pioggia, si potessero limitare i danni. Così facendo, infatti, la superficie esposta all’acqua era minore e lo strato esterno avrebbe protetto il carbone sottostante. I mucchi, inoltre, potevano essere coperti con i sacchi vuoti o con qualsiasi altra cosa si avesse a disposizione servendosi del rastrello; quindi lo afferrava per i manici e vuotava il carbone in un sacco di iuta, tenuto aperto dall’inzacchino. Nel riempire le bballe di tanto in tanto bisognava rinsaccare, cioè sbattere il sacco per terra tenendolo per i lembi dell’apertura, in modo che il carbone si assestasse bene. Nei casi in cui era stata pattuita una retribuzione a ssòma, questa operazione diventava però una frequente causa di liti tra i carbonai ed i loro datori di lavoro. Dopo che i sacchi erano stati portati via si permetteva alla gente del luogo di recuperare i minuscoli frammenti di carbone (carbonèlla) rimasti sulla piazza dopo l’insaccamento*.
Il lavoro era, così, terminato ed i carbonai si apprestavano a tornare a casa o a partire verso altre mete. Prima di andarsene, però, provvedevano a smontare la capanna, in modo da recuperare il legname adoperato nella sua costruzione.
Il bosco dopo il passaggio dei carbonai aveva le sembianze di un giardino, con i sentieri ordinati e perfettamente transitabili, con gli alberi svettanti su un terreno pulito e con le macchie nere delle piazze a testimoniare il faticoso lavoro che vi si era svolto. Le montagne si svuotavano allora della presenza di quegli abitatori discreti e tornavano alla quiete abituale, ai lenti ritmi di sempre.
Testo tratto da:
“Le voci della memoria. Viaggio da Amelia a Baschi tra parole e cose di ieri”
Sabrina Zappetta
Si ringrazia vivamente l’autrice per aver fornito il materiale per la pubblicazione, sia testo che immagini di sua proprietà.